Combattere la depressione: sono davvero utili gli antidepressivi?

Quando ci si trova a combattere la depressione spesso gli specialisti consigliano di iniziare, oltre alla psicoterapia, una terapia farmacologica con gli antidepressivi.

Questo tipo di psicofarmaci agisce sul meccanismo di trasmissione della serotonina, un neurotrasmettitore molto importante, visto il suo ruolo in molte funzioni della nostra vita, come le emozioni, lo sviluppo, la crescita e la morte neuronale, l’attenzione, la riproduzione e altre funzioni neurovegetative.

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La serotonina è un neurotrasmettitore molto antico nella storia degli esseri viventi (risale ad almeno 1 miliardo di anni fa), ed è presente non solo negli esseri umani, ma anche nei funghi, nelle piante e negli animali.

Lo
psicologo Paul Andrews ha pubblicato diversi articoli e ricerche sostenendo l'ipotesi che, date le molte funzioni della serotonina, l’uso degli antidepressivi possa essere più dannoso che utile.

Ma qual è esattamente la sua tesi?

E’ un assunto di base della medicina evoluzionista che intervenire sui
processi di adattamento porti a un degrado delle funzioni biologiche. In altre parole, agire sui meccanismi che mantengono l’equilibrio può causare disturbi per se. Nel caso specifico gli antidepressivi (SSRI) fanno in modo che ci sia troppa serotonina negli spazi tra un neurone e l’altro, alterando l'equilibrio cellulare. In più gli antidepressivi agirebbero sui livelli di serotonina di altre strutture corporee, lontane dal cervello.

Si pensa solitamente che il
beneficio primario degli antidepressivi sia una riduzione dei sintomi depressivi, una visione che presuppone un malfunzionamento cerebrale. Una visione alternativa è che gli attuali criteri diagnostici non siano in grado di distinguere tra reali disturbi e una normale risposta evolutiva a fattori stressanti. Questa seconda concezione suggerisce che l’interruzione farmacologica dei sintomi, che si ottiene attraverso l’uso degli antidepressivi, possa influenzare negativamente la nostra capacità naturale di superare o gestire eventi stressanti.

Lo psicologo osserva che questo tipo di farmaco ha bisogno solitamente di circa
due settimane prima di iniziare ad avere un effetto. Egli sostiene che il “sentirsi peggio”, riportato spesso dai pazienti nelle prime due settimane di trattamento, possa essere espressione di una risposta compensatoria del nostro organismo all’”attacco” dei farmaci, e se ciò fosse vero sarebbe chiaro come tali farmaci operino una destabilizzazione delle normali funzioni corporee. Per spiegare questa sua ipotesi fa l’esempio degli antipiretici (antifebbrili), che in alcuni casi possono intralciare l’utile funzione della febbre, quando il corpo si trovi a fronteggiare un’infezione.

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Da qui segue la più suggestiva ipotesi che lo psicologo propone, ovvero che
la depressione sia una risposta evolutiva a problemi complessi, e che abbia la funzione di innescare cambiamenti nel sistema corporeo per consentire l’analisi e il superamento di quegli stessi problemi.

In ogni caso lo psicologo precisa come in determinate situazioni (ad esempio depressioni molto gravi, o pazienti con tumori cerebrali, o che stanno riprendendosi da un ictus) gli antidepressivi si siano dimostrati sicuramente utili nel combattere la depressione, ma afferma anche che occorrerebbe riflettere attentamente sui risultati delle più moderne ricerche (ed aggiunge "indipendenti", rivolgendo una critica a quelle sostenute ad esempio dalle case farmaceutiche) che gettano più di un dubbio su costi/benefici dell'uso un po' troppo leggero che in molti casi si fa degli antidepressivi.

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